“Inchiesta su Palmira” a cura di Francesca Petrocchi. Puntata seconda

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La lunga strada verso Palmira: viaggio nel tempo

 

Un piccolo passo indietro. Dall’architettura interna ai “pezzi” giornalistici (9 complessivamente, dei quali 5 editi su “L’Europeo”, i restanti sul “Corriere della Sera” fra il 21 maggio e l’8 agosto 1953) si evince che Moravia giungeva a Palmira lungo tappe effettuate a Gerusalemme, Betlemme,Gerico, Damasco, Beirut, Aleppo, Homs. Un itinerario di perlustrazione del Medio Oriente (così il “capitolo” è titolato nella già citata edizione Bompiani curata da Tonino Tornitore) dal quale scaturiva – come sempre nel Moravia viaggiatore- un reportage orchestrato per “pezzi” formalizzati in brani descrittivi di luoghi e ambienti e in riflessioni storiche, politiche, culturali, sociologiche ricavate integrando conoscenze pregresse e ben documentate all’osservazione in presa diretta di paesi e civiltà decifrati nella consapevolezza che «crediamo di viaggiare nello spazio e invece viaggiamo nel tempo: il senso del viaggio non ci è dato tanto dalla lontananza quanto dalla diversità». Acuta definizione del viaggio e del viaggiare in quell’epoca storica del ‘900 (ancora aliena dall’uniformità, dall’omologazione, dalla riduzione dell’ “alterità” determinata dall’organizzazione del turismo di massa) ove si trattava di una “diversità” tra i popoli, precisava Moravia,«dovute quasi tutte ai diversi gradi di civiltà e di progresso che essi hanno raggiunto».

La tappa a Palmira si inseriva in un’esperienza di viaggio conoscitivo (non certo meramente “turistico”) di un’area geo-politica  già allora – nel 1953- particolarmente “calda” e in una fase di complesso, difficile assestamento (non mai raggiunto);  aveva Moravia del resto constatato, in Israele, quanto e in che forme il «morbo» del nazionalismo – nato «ad Occidente e a Nord, in Francia e in Germania» si fosse «lentamente e implacabilmente» propagato nei paesi del Sud e del Sud-est europeo e poi in Asia divampando anche nell’area dell’antico continente «da cui un tempo ci venivano le credenze e le religioni sopranazionali e universali». Il viaggio era effettuato dopo la guerra arabo-israeliana e nel periodo in cui si prendeva atto anche in Europa di una realtà ben concreta, ovvero delle conseguenze dettate dalla creazione dello Stato di Israele e del dramma della diaspora palestinese apertosi già fra il 1945 e il 1948. In particolare, l’itinerario siriano (dal Libano, da Beirut, in aereo ad Aleppo) si snodava in un ben preciso momento storico-politico quando la Repubblica Siriana era sotto la dittatura militare di Adib al-Shishakli poi caduto nel 1954. Le riflessioni di Moravia tendevano a porre in rilievo la centralità che le questioni mediorientali avevano assunto nella politica mondiale contemporanea:«le malattie interne economiche, sociali e politiche di questi paesi, diventano all’estero motivi di intervento, di rivalità, di intrigo e di interessata protezione per le grandi potenze di oggi. I risultati di questa  lotta oscura sono ancora incerti, ma si può senz’altro affermare che dalla sistemazione finale del Medio Oriente dipende l’avvenire dell’Europa intera». Una sistemazione compromessa dall’interna disunione fra gli Stati arabi – pur tuttavia coalizzati nella sola lotta contro lo Stato di Israele- e dall’ altalenarsi delle diverse sfere di influenza delle tre «maggiori potenze extra-orientali, gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Russia»; a sottolineare l’importanza decisiva del Medio Oriente sia per l’Europa che più in generale per l’Occidente, Moravia ricorreva ad un’osservazione storica integrata a quella ricavata dalla visione in presa diretta dei luoghi visitati entro i quali si ergevano resti e testimonianze delle antiche, trascorse conquiste e invasioni occidentali: «Vicino a Beirut, su una collina rupestre, i macigni portano incise svariate, singolari epigrafi di eserciti invasori. Si va dai soldati di Napoleone su su fino a quelli di Allenby, fino a quelli di De Gaulle. E per la Siria e per il Libano dovunque sorgono i castelli dei crociati, fortezze di mirabile architettura costruite a tanta distanza dai paesi di origine da inglesi, francesi, tedeschi, italiani». Concludeva Moravia l’articolo titolato L’uomo malato che fa i capricci (com’era definito, nella seconda metà dell’800, secondo la «terminologia elegante e irresponsabile delle cancellerie europee», l’Impero Ottomano) che, per «sua disgrazia», il Medio Oriente era da sempre «uno dei punti di incontro di civiltà e di popoli nel loro incessante e quasi automatico tendere verso dominazioni mondiali» come del resto attestato «dalla politica inglese, russa, francese, americana degli ultimi decenni» e da quella, nei secoli passati, di «potenze non meno lontane e straniere». L’elemento innovativo palesatosi in quello scorcio degli anni ’50 – egli notava- «è che ciò è noto anche agli abitanti di questi paesi. Tale consapevolezza introduce un elemento di maggiore pericolosità, di ricatto al destino».

Con questo bagaglio di impressioni e riflessioni ricavate dall’osservazione dal vivo, Moravia arrivava a Palmira da Homs lungo una strada («enorme stradone») che allora attraversava il deserto o meglio la “steppa” desertica popolata di branchi di gazzelle, di «cicogne, bianche e nere, ogni tanto svolazzanti con le grandi ali» e, all’improvviso, da un villaggio «recente sorto intorno gli stabilimenti dell’oleodotto». Una natura intatta e incontaminata e poi – all’improvviso- il moderno, il nuovo (o la vera, autentica “alterità”):

La pista divide in due parti questo villaggio. Da un lato casucce di fango secco, mezzo sgretolate; dall’altro giardini cinti di fil di ferro spinato, costruzioni basse e moderne, grandi serbatoi di petrolio di un metallo bianco che sembra alluminio. Da un alto gli operai arabi, dall’altro i padroni inglesi. Nella parte araba, le donne stanno accoccolate sulle soglie, i bambini si avvoltolano nella polvere, molti uomini sfaccendano intorno lo spaccio alimentare e il caffè; nella parte inglese, invece, non si vede anima viva. Il contrasto è forte; ma, forse per quella presenza delle donne e dei bambini, il villaggio arabo ispira più confidenza degli stabilimenti inglesi. Dico all’autista che gli Inglesi debbono annoiarsi, così isolati in mezzo al deserto. Lui risponde, alzando le mani e ridendo, da matto: “Gli Inglesi se ne fregano della noia”, con un accento misto di malcelata ammirazione e di antipatia”.

Poco più avanti alle gazzelle, alle cicogne e agli asfodeli, in pieno (monotono, ostinato) deserto verso Palmira si sostituiranno, alla vista, «scarafaggi enormi, di un nero polveroso» che arrancavano «in fretta su questo terreno desertico». Reali, senza dubbio, ma anche, forse, simbolici o metaforici di una alterità che arranca, nel deserto; nera: come l’oro nero.

Lungo la trasferta del 1985- in cui tornerà a Palmira da Damasco dopo più di 30 anni- Moravia andrà, soprattutto, segnando di passo in passo mutazioni e trasformazioni intercorse e cristallizzate:

Oggi non è più così. Le macchine, nel deserto come dappertutto, hanno distrutto il rapporto con lo spazio e dunque con il tempo, in maniera irreparabile. La solitudine non è più solitudine, il pericolo non è più pericolo,la fatica non è più fatica, la fame e la sete non sono più la fame e la sete e così via e così via. Tutta l’antica realtà del deserto è crollata come un fondale di cartone. E il deserto è persino diventato “utile”quando, debitamente perforato, ne zampilla il prezioso petrolio.

Ma ecco, dunque, nel 1985 Palmira, trent’anni dopo.

Francesca Petrocchi

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