Sull’università e il suo destino. A cura di Francesca Petrocchi

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Fa sorridere (amaramente) il bell’intervento L’università? Serve a liberarvi l’anima di Nuccio Ordine ( Ordinario Università della Calabria) edito su “Sette” (Corriere della Sera) il 3 giugno scorso nella rubrica “ControVerso”: un “controverso” reale e ben studiato, assai dotto, raffinato, incardinato com’è sul recupero –con ampie citazioni- dell’orazione tenuta a Napoli nel 1732 da Giambattista Vico in occasione dell’inaugurazione dell’ anno accademico (De mente heroica/Della mente eroica, in  Opere, a c. di A. Battistini, Mondadori, t.1, pp.371-73). Come ricorda Ordine, si trattava di un «accorato appello» rivolto da Vico «ai nobili giovinetti» meridionali d’allora e allora studenti di una università – sosteneva Vico- istituita «Per liberare gli animi vostri» da «fini» altri e di «gran lunga inferiori, che sono ricchezze e onori», animata da «dottissimi professori» capaci di insegnare ai giovani studenti che la sapienza si acquisisce con la «brama operosa di possederla» e nella consapevolezza che “ci saranno sempre nuove cose da imparare e da scoprire”. Insomma, conclude Ordine, «un modello di università di unità dei saperi» del tutto «agli antipodi» del modello “aziendalistico” di università da tempo (troppo) imposto (non senza compiacimento da parte di quanti l’hanno imposto o l’hanno subìto passivamente) proiettato verso il “mercato” considerando gli studenti dei clienti o consumatori e il «sapere come uno strumento per far soldi, trasformando in mercato la conoscenza e la stessa istruzione pubblica», sottolinea Ordine.

Or bene: il “taglio corto” della rubrica giornalistica ha costretto evidentemente il collega (mio vecchio amico) Ordine ad un’estrema sintesi seppur azzeccatissimo il recupero vichiano posto a confronto (drammatico) con la realtà odierna ove s’è smarrito inesorabilmente persino il senso dell’interrogativo che apre l’articolo («Quale dovrebbe essere la funzione dell’università?») nella pletora di adempimenti tecnico-burocratici, di larvate progettualità, di sterili misurazioni valutative, di “qualità” da accertare costantemente, di classifiche strombazzate e dilaganti nella palude in cui versa la formazione universitaria nazionale. Proviamo ad aggiungere qualche codicillo o alcuni spunti di riflessione senza scivolare nell’ abusato tentativo di ricostruire la “storia” – anche politica- della lenta, tragica agonia del sistema universitario nazionale. Anche perché quanti vivono l’università da docenti (con una robusta anzianità di “servizio” reale: oggi si incappa in tanti “professori” NON tali) ricostruiscono l’historia dal personale, individuale punto di vista, del tutto esperienziale pur arricchito dai “racconti” di colleghi vicini e lontani anche anagraficamente e/o dal punto di vista disciplinare. Errato attribuire a questo o a quel provvedimento legislativo o normativo (vicino o lontano) colpe e responsabilità: c’è chi ne è rimasto colpito (inesorabilmente) c’è pure chi ci ha guadagnato (altrettanto inesorabilmente) da questo o quel provvedimento o legge o norma; che poi si sa l’Italia è il paese del diritto e soprattutto del rovescio e quanti vivono con coscienza la propria professionalità sanno bene che son le opere che contano, quelle reali ben concrete e non le norme (“poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno“, scriveva S. Paolo).

Ma ha ragione Nuccio Ordine a richiamare la nostra attenzione su un punto: il modello aziendalistico, proiettato verso il mercato, quello che considera gli studenti come clienticonsumatori ha fatto il suo tempo anche se ancora perdura qui e là all’interno del sistema nazionale qualche resistenza a cancellarlo o respingerlo in specie perché assente o non ancora elaborato un nuovo modello; dunque si andrà ancora a “caccia” di clienti con relativo apparato di slogan pubblicitari, si misureranno nervosamente indici di iscrizioni e di immatricolazioni, si vaglieranno test di misurazione del “gradimento” da parte dei clienti/studenti, si proporranno nuove formule “attrattive” magari anche concorsi a premi riservati ai clienti benemeriti come al supermarket. Ma sono esangui prolungamenti di un modello esausto.

Gli è infatti che l’istruzione universitaria non è un elettrodomestico, una saponetta, una crema anticellulite, un formaggio: è un “prodotto” a sé stante, che sfugge a qualsivoglia controllo di qualità o strategie di marketing in quanto individuale, fatto cioè di e da individui, di e da persone e rivolto all’individuo, alla persona. I “clienti” oggi chiedono altro rispetto ad un prodotto di consumo o di “profitto”: son scaltri e diffidenti verso formule propagandistiche, verso tentativi di marketing che ricalcano quelli consueti delle formule pubblicitarie o slogan nei quali sono e si sentono fin troppo immersi sino ad averne noia. Il modello “aziendalistico” è ormai esausto, imploso non solo e non tanto per l’incapacità di quanti si son formati e sanno far bene i docenti – non i rappresentanti di commercio o i manager industriali e magari anche finanziari- ma perché non attira più quanti (potenziali “clienti”) hanno ben compreso cosa c’è dietro e dentro il prodotto e soprattutto dovrebbe esserci, chiedono che ci sia, impongono che ci sia: una cosa che si chiama istruzione universitaria, istruzione ovvero competenze e conoscenze. Finiamola una buona volta di scopiazzare il “mercato” con relativo apparato di spot pubblicitari (i “clienti” potenziali ben sanno che sono una fuffa: nei siti degli Atenei compaiono foto e spot con studenti gioiosi e bellissimi che ballano e cantano; in qualche caso anche accompagnati dai docenti), di strumenti atti a presentare l’università per ciò che NON è e NON deve essere e non è MAI stata (mettendola a pari del bagnoschiuma che mentre ti lavi ti scioglie la ciccia in 5 secondi). L’istruzione è una cosa seria, dura e difficile, impegnativa, “alta” e soprattutto non finisce mai né dopo il 3 né dopo il +2. Non finisce per gli studenti come non finisce per i docenti (veri; perché esistono anche i falsi “professori” o imperfetti “professori” che allignano nelle categorie professionali redditizie).

Ha scritto di recente (ieri) su “ROARS” il collega Federico Bertoni (Ordinario. Alma Mater Studiorum-Bologna):

“Del resto l’università è in buona compagnia. Tutt’altro che isolata, ben lungi dal chiudersi nelle sue antiche mura, mutua  le stesse strategie di marketing con cui un paese stanco e sfibrato si illude di sfuggire al proprio declino. Studenti, ricercatori, dipartimenti, scuole, cibo, vino, oggetti artigianali, piccole aziende: la trama è la stessa, semplice ed efficace, costruita con una manciata di mattoni narrativi: in complesso le cose vanno male ma noi coltiviamo le eccellenze, non siamo come i cinesi che sono piccoli, si assomigliano tutti, lavorano nei sottoscala e quando muoiono spariscono nel nulla. Noi facciamo le cose con amore. Siamo competitivi sulla qualità. Alziamo i prezzi ma ne vale la pena. Chissà se è vero ma l’importante è cantarcelo, dichiararlo ai giornali, scriverlo nei siti e sulle brochure, inventarsi linee produttive specifiche. Tanto qualcuno ci crederà. C’è un brand del Ministero dell’Istruzione che si chiama Io merito. Valorizzazione delle eccellenze: organizza premi e competizioni di vario tipo in ambito scolastico, con tanto di consacrazione degli studenti vincitori in un «albo delle eccellenze». Perché anche queste in fondo sono «eccellenze italiane»: come gli atleti olimpici, il prosciutto di Parma o la mozzarella di bufala campana”.

Aggiungo io: l’implosione del modello aziendalistico ormai da tempo esausto (che ha comportato fra l’altro negli Atenei italiani la messa in pratica di modelli e pratiche di gestione della didattica e della ricerca “premiali”, adatti all’azienda produttrice di ferri da stiro, consoni ai produttori e venditori di lecca lecca – con tutto il rispetto per l’una e per gli altri- ove la validità del docente è misurata sulla base dei CFU in più “erogati”, sulle risposte più o meno positive vergate nei questionari che misurano la “soddisfazione” del cliente/studente, sul numero delle tesi seguite come relatore e altre amenità che tralascio per pietas) lascia per altro il vuoto (non il baratro) oltreché le macerie entro le quali si aggirano dispersi quanti hanno – con leggerezza- provveduto nel passato ad incarnarlo oltreché a costruirlo. Un po’ come è accaduto (o accade) nello scenario della politica nostrana ove è imploso sia il modello del partito-azienda sia quello del partito tout-cour un tempo radicato capillarmente: i clienti/consumatori della politica hanno capito prima dei politici.

Ma cito ancora dall’articolo di Bertoni:

Parole magiche: Eccellenza

È più forte di me: ogni volta che sento un ministro, un rettore o un collega che straparla di eccellenza (spesso con il plurale partitivo: «nel nostro dipartimento abbiamo delle eccellenze»), mi viene in mente quella scena del Marchese del grillo in cui Alberto Sordi, dopo una rissa in osteria, sfugge all’arresto in virtù del suo rango e sale in carrozza tra gli ossequi del commissario che lo ha riconosciuto, rivolgendosi così al gruppo dei plebei arrestati: «Mi dispiace. Ma io so’ io, e voi non siete un cazzo».

Ecco, integro: si aggirano fra le macerie anche i (pochi VIP) Marchesi del Grillo, quelli che nelle strategie aziendalistiche acquisivano potere dispensando prebende fra i plebei o facendo loro credere che prima o poi sarebbero stati “premiati”: ma si aggirano a mani vuote, ora.

Marchesi-personaggi in una farsa (tragica) denominata (astutamente) “politica accademica” quando non era né l’una né l’altra cosa: non era “politica” (intesa nel senso autentico e nobile del termine) né accademica (idem) ma autopromozione al rango di Marchese del Grillo col sussidio dei taciturni, incerti, opachi vassalli alla inesausta ricerca di uno spazio al sole.

FRANCESCA PETROCCHI

 

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