L’educatore in psichiatria. Un “semplice” impiego, o una vocazione?

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Ne parlo con Sara Pizzi, da anni ormai occupata in un settore lavorativo diverso: l’educatore. Semplicemente l’educatore.

Con lei fu diverso sin dalla prima volta. Entrò nella sala dove avevo riunito varie persone per discutere di un progetto. Aspettavo soltanto il suo compagno, invece arrivò anche lei. Nessuna percezione di futile rivalità femminile sebbene io sulle prime non fui estremamente espansiva. Rispose così: siamo in procinto di prendere posto attorno al tavolo ovale; una mia occhiata “generale”, voglio essere sicura che tutti siano comodi; pochi istanti, dunque, prima di voltare lo sguardo sulla sinistra. La trovo seduta lì, accanto a me; delicata, impercettibile ma presente. Io la guardo, lei mi guarda a lungo in silenzio. Ha conquistato la mia simpatia. E la mia stima. Vicino a me. Mai dimenticati quegli attimi.

Oggi sono a casa di Sara, un ambiente profumato, gioviale, chiaro. Voglio capire, se possibile, cosa è il suo lavoro; cosa fa, come agisce e come si sente soprattutto mentre aiuta altri a superare le proprie difficoltà. Prima di tutto, perché; perché un lavoro così importante? “Grazie a un percorso personale che mi ha portato a conoscere il mondo della malattia mentale sin da quando ero una ragazzina. Se lavoro in questo settore, e, lo faccio con amore, lo devo a mio zio Guerrino. È lui il mio mentore. Come lo è anche per Ilenia, conosci mia sorella, no?,  che si sta impegnando per seguire il mio stesso iter”.

Grazie al padre che ha sempre creduto in una figlia seria, cantante per diletto, che si è adoperata nel volontariato a cominciare dall’età di dieci anni; grazie alle paure che “incuriosiscono” la madre nei confronti della “diversità”, la ragazza studia e  insegue il suo proposito fino a raggiungerlo. Grazie a un tirocinio che svolge a servizio del Dipartimento di salute mentale conosce Emanuela Appolloni, responsabile del centro. “Lei è la mia mamma professionale”, e grazie a questa signora che propone a Sara un ulteriore stage, entra in scena Paolo Manganiello che diventa compagno di vita, maestro e collega.

Dopo una serie di esperienze presso alcune case di cura viterbesi, un periodo di lavoro negli Asili Nido e con bambini che presentano ritardi o iperattività, le Case famiglia che ospitano minori, la giovane arriva all’AGATOS. È questa  una associazione che gestisce comunità terapeutiche e gruppi appartamento per pazienti psichiatrici, diretta da Giovanni Tassoni; progetto nato e presieduto da Manuela Topi.

“Sono io che entro nelle loro case, capisci? Sono loro che mi concedono un posto nelle loro vite per vivere insieme la quotidianità”; il gruppo appartamento non è un contenitore istituzionale ma una casa dove due, tre o quattro persone seguono un percorso al fine di ritrovare o raggiungere la propria autonomia. “L’unico strumento che ho a disposizione per il mio lavoro è la presenza”, si vivono reciprocamente momenti, azioni, reazioni, emozioni; si deve essere pronti a mettere in gioco anche sé stessi perché “tu sei il loro specchio esattamente come loro diventano il tuo”. La voce di Sara è ferma, sicura; descrive, parla, mi racconta, vedo il suo coinvolgimento; “talvolta è davvero inevitabile non fare a pugni con il proprio vissuto”. E con la realtà, più volte la chiama un collega che ha bisogno di un parere urgente.

Lavora con loro, spiega giustamente Sara, e non per loro; il normodotato e il paziente psichiatrico non provano emozioni differenti; piuttosto le “canalizzano” in maniera diversa. La persona affetta da patologia mentale va aiutata a riconoscere e gestire impressioni e entusiasmi ponendo l’attenzione sul significato della parola “limite”. “Non ci si deve sostituire al paziente, ma prenderlo per mano e avanzare con lui. Solo in tal modo sarà possibile non limitarlo ma aiutarlo”. Perché la diversità non è un ostacolo, ma una ricchezza che favorisce uno scambio quando viene trasformata in potenzialità. Chi ha paura di scoprire o riscoprire sé stesso non può essere un buon educatore: con il paziente non si finge! Anzi, il paziente è proprio colui che per primo osserva. “La mattina, appena entro, c’è uno di loro che mi fissa e nota immediatamente se non sono del tutto serena da un lieve movimento che evidentemente faccio con la bocca”; impossibile nascondersi.

Impossibile non mantenere i ruoli, tuttavia; questo deve essere un punto fermo affinché la normalità possa essere raggiunta: “si parte insieme dicendosi ‘andiamo’ ma l’obiettivo  prevede che,  a coloro che abbiamo accompagnato lungo la ricerca  di una sorta di regolarità, possiamo dire ‘ora vai’!”. L’operatore sa dove andare, sa che deve guadagnare la fiducia di quelle persone che in lui vedranno poi una guida; non è tutto facile, anzi, i momenti di crisi sono frequenti. Ma da un “fallimento” si impara mentre  una banale situazione può diventare strumento educativo; “devi essere sempre responsabile del fatto che la vita di altre persone è in mano a te, per questo è necessario stabilire la corretta Relazione, (con la R), con chi hai davanti. E non parlo di paziente, non mi piace dire ‘paziente’. Voglio far capire bene che dietro a un educatore e a un paziente, ci sono sempre due individualità; in psichiatria si lavora con le persone”.

Sottolinea più volte, Sara, che lei non usa dei “ferri del mestiere”: già Carlo Carrer in occasione di un recente corso di formazione ha voluto evidenziare proprio questo punto. Anche un chirurgo, pur nelle difficoltà del proprio lavoro, dispone di un apparato di strumenti e segue un protocollo, in genere. Chi lavora con la mente, le emozioni, i pensieri, non può affidarsi che a sé stesso e a quel che è capace di trasmettere. Questa giovanissima signora, che chiamo signora perché ogni volta mi stupisce per il forte senso di maturità che invia, non è d’accordo con chi le parla di altruismo: “il mio lavoro desta spesso curiosità e vengo anche spesso apprezzata come ‘altruista’. Ti garantisco che la mia professione è innanzitutto un bellissimo percorso personale e soprattutto egoistico. Dedicandomi agli altri ho potuto conoscere più profondamente alcuni aspetti della mia personalità, e ogni giorno mi si offre questa incredibile opportunità”.

Dedicarsi agli altri non significa rinunciare a sé stessi ma vivere due volte: questo è il liet-motif  dell’istituto Superiore Universitario di Scienze Psico-pedagogiche e Sociali, Progetto Uomo, dove si forma l’educatrice; Istituto affiliato alla Facoltà di Scienze dell’Educazione Universitaria Pontificia Salesiana il cui Preside è Nicolò Pisanu. “Sai Barbara, queste parole sono diventate il mio motto”. E ancora, “non voglio conoscere la patologia da cui è affetto quando incontro qualcuno del gruppo appartamento per la prima volta.  Per caso, quando ti presentano una persona gli chiedi se è diabetica?” – effettivamente proprio no.

Sara è rispettosa, educata e umile. Mi chiede di citare alcune persone e di ringraziare perché se nel corso del tempo ha potuto trasformare la passione per qualcosa di tanto misterioso come sono certe patologie mentali, in professione, è anche grazie a chi l’ha accompagnata e istruita con capacità e competenza. Ma dolce Sara, sinceramente sono tutti quelli che hanno la tua forza che devono essere ringraziati! Non è affatto semplice conoscere alcuni mestieri; non lo è pensare, in una giornata primaverile, che in qualche casa, apparentemente normalissima, qualcuno sta lottando contro qualche pensiero buio…; “non ho più notizie di me da tanto tempo”…, Alda Merini…

 

Barbara Bruni

 

In foto: Sara Pizzi

 

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