Riflessioni di Francesca Petrocchi sulle attuali dinamiche culturali e sul “mestiere di scrivere”. “Indagine” sul rapporto tra letteratura e giornalismo

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A proposito di “Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento”, a cura e con Introduzione di Carlo Serafini.

 

 

Non “freschi di stampa” i due volumi curati da Carlo Serafini (pubblicati da Bulzoni editore) ma meritevoli di sempre ritornanti riflessioni e “letture” stimolate dall’ampiezza e dal respiro critico e storiografico dei saggi (di autori diversi) ivi raccolti; nel 2010 l’uscita del primo ponderoso tomo (più di 700 pagine) che da Svevo, Pirandello e Marinetti giunge sino ad Arbasino, Sanguineti ed Eco passando per una fitta serie ( 37 nel totale) di poeti, narratori e critici alle prese con collaborazioni giornalistiche o “prestati” alla quotidiana o periodica carta stampata. Del 2014 un secondo volume, sottotitolato infatti Altri studi su letteratura e giornalismo, laddove nuove indagini critiche integrano il precedente repertorio sondando esperienze significative con particolare riferimento all’arco d’anni che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli “anni Zero”.

La particolarità dei due volumi (editi nella Collana “Impronte” diretta da Silvana Cirillo) consiste anche nell’esser frutto di un lavoro di squadra laddove docenti universitari “maturi” e di lunga esperienza si affiancano a più “giovani” dottori di ricerca o ricercatori (sovente: precari) concretando un mosaico di interventi dedicato al giornalismo culturale composto di tasselli fittissimi seppur non esaustivo (e questo è un bene: altri volumi verranno in futuro) se rapportato all’imponente numero di scrittori e letterati parimenti collaboratori (più o meno stabili) di testate giornalistiche (nazionali e “locali”) novecentesche, testate (“resistenti” nel tempo o ormai defunte) dal numero altrettanto imponente.

Si tratta di una raccolta di studi utilissima “fonte” di indagine storico-critica delle dinamiche culturali novecentesche e del primo decennio del Terzo Millennio, accomunati tutti sotto il profilo del metodo in quanto fondati su un solido, preliminare impianto di ricerca d’archivio e documentale (svolta dunque in biblioteche ed emeroteche), integrati da riferimenti bibliografici estesi e puntuali relativi ai singoli poeti e narratori quanto da un apparato di citazioni ricavate da articoli, riflessioni, carteggi entro i quali scrittori e letterati hanno depositato il “senso” del loro “mestiere di scrivere” anche su fogli di quotidiani e periodici e in particolare sulla gloriosa “terza pagina” ormai da tempo sparita, autentica croce e delizia della cultura letteraria di quasi tutto lo scorso secolo, diciamo fino agli anni in cui si afferma (irrevocabilmente, per dirla alla Cardarelli) l’ “industria” culturale e gli apparati connessi.

La raccolta di studi (fortunatamente di “vecchio” stampo cioè non frutto di bla bla bla di seconda mano né infarcita di teorizzazioni astratte) intende anche offrire risposte a diversi interrogativi centrati sul tema del rapporto fra letteratura e giornalismo (o fra giornalismo e letteratura) scanditi  nella quarta di copertina del primo volume e che qui ripropongo:

Cosa avvicina uno scrittore al giornalismo? E’ solo una questione economica? Cosa porta sul giornale lo scrittore in più (o in meno) rispetto al giornalista? Come riesce a conciliare a livello di scrittura la libertà della creazione con la misura del pezzo? Che differenza di lettura di un luogo, di un viaggio, di un avvenimento può esistere tra un giornalista e un letterato? Che tipo di rapporto intrattiene un letterato con il potere? Con i vertici di un giornale? Con la velocità della comunicazione? Con il pubblico non avvezzo ai linguaggi della cultura cosiddetta “alta”? E questi rapporti sono cambiati nel corso del secolo? E gli articoli degli scrittori….sono letteratura? O sono solamente una produzione di serie minore? O addirittura il giornalismo può essere a sua volta considerato un genere letterario?

Difficile offrire una risposta esaustiva e omnicomprensiva a tutti questi interrogativi: tant’è che l’unica soluzione resta l’accertamento specifico, “caso per caso”, scrittore per scrittore, testata per testata (in molti casi: la stessa, condivisa da più “letterati” nello stesso periodo o in anni diversi); da qui discende l’eclettica “lista” di autori, di poeti e narratori presi in esame nei diversi saggi, che scorre da Bacchelli a Zavattini, da Malaparte a Primo Levi, da Buzzati a Montale, da Moretti a Moravia, da Calvino a Manganelli, da Piovene a Campanile, Pasolini,  Bianciardi, Fortini, Testori ed altri nel primo volume e, nel secondo, dalla Deledda alla Serao, da Anna Banti alla Maraini (colmando in parte una lacuna di “genere”) passando per Ungaretti, Consolo, Comisso, Brancati, Bufalino ed altri per giungere infine alle Scritture ibride tra cronaca, saggio e finzione (saggio di Luca Mastrantonio) a noi vicine ovvero alla contaminazione fra giornalismo e letteratura, al romanzo d’inchiesta e al giornalismo d’autore, all’auto-fiction dei nostri giorni con la comparsa sulla scena di carta ( stampata) non solo di scritture ibride ma di scrittori ibridi (o di giornalisti ibridi) ai quali andrebbero aggiunti i tanti “personaggi” che costellano lo scenario dei media attuali che corrono dalla pagina di carta a quella internettiana passando per poltrone o seggioloni dei talk-show o di rassegne festivalier- culturali su piazza, strada, vicolo, prato o spiaggia. Segni di una caduta dei recinti? O piuttosto di una apertura dei recinti?

Più di uno spunto di riflessione offrono le tante “occasioni” rappresentate nei due volumi da citazioni recuperate dalle pagine “giornalistiche” dei diversi scrittori; mi piace (oggi: altre verranno in seguito) coglierne una in particolare, estratta da un articolo di Giovanni Testori del 1980 centrata sul tema dei tempi rapidi ovvero della velocità dell’informazione che hanno oscurato i tempi “lunghi” della «meditazione su un avvenimento»,  i tempi «meditati», scriveva Testori, e «lunghi che la nostra società ama così poco, ma che così tanto appartengono alla natura e alle necessità dell’uomo».  Era il «terribile obbligo della velocità» dell’informazione giornalistica il pericolo da cui difendersi, al quale opporsi in quanto strettamente connesso alla «transitorietà» che priva il giornalismo dall’esser mezzo e strumento di «ascolto e di intervento nel profondo dell’uomo». “Velocità” e “transitorietà” che, insieme, acquistano tuttavia un peso rilevante «nella formazione delle conoscenze e delle coscienze pubbliche» (ed allora ancora non si faceva politica via twitter o le selezioni nei Concorsi per i docenti con i quiz ).

Incidenza strategica nella formazione delle conoscenze e delle coscienze “pubbliche” troppo spesso dimenticata, sottovalutata ai nostri giorni o “sfruttata” per manipolare le une e le altre. Auspicava allora Testori che quanti hanno la responsabilità di operare nel campo dell’informazione (veloce e transitoria) fossero invece orientati ad «una sorta di permanente capacità di riflessione, di meditazione e, dunque, di umiltà nei confronti di cos’è l’uomo; nei confronti della sua enorme, religiosa, abissale dignità; del suo enorme, religioso, abissale mistero; sì da permettere al momento in cui l’avvenimento imprevisto e tragico laceri il ritmo quotidiano, una lettura il più possibile vicina alle complesse ragioni di quella dignità e di quel mistero; più vicini a ciò, che non a un qualunque  disegno ideologico o politico».

Richiedeva dunque Testori l’avvento di un giornalismo capace d’esser anche “spazio di riflessione” e, insieme, di “umiltà”: attribuendo tuttavia all’informazione giornalistica una natura, un carattere, un “nerbo” e un “passo” che essa non poteva né può possedere; ed in ciò – aggiungo io- consisteva (e consiste) l’ossatura, la materia costitutiva i recinti, gli steccati eretti (non mai abbattuti) fra giornalismo e letteratura (autentica).

Testori rilevava che «una delle colpe più gravi della nostra società per ciò che concerne la possibilità di creare dentro il presente un futuro umanamente reale, abiti nella fretta con cui tutto fa per “dimenticare” e, insieme, “rimuovere” i segni più profondi, estremi e drammatici che la colpiscono ed investono». Ecco: la letteratura (autentica) non dimentica né rimuove, non ha “fretta”; anzi: vive di tempi lunghi, lunghissimi (anche millenari), non evapora, non sparisce, non “gira pagina” saltando da una news all’altra.

La «panacea delle festaiolità (che è giusto il contrario della “festività”)» -aggiungeva Testori in un articolo del 1981- «il ritmo precipitoso con cui gli avvenimenti vengono illustrati considerati e dimessi (quasi che anche qui vigesse la demenziale legge del prendere, consumare e gettar via), stanno a indicarci, ben più che il bisogno d’andare avanti, la fretta ansiosa e cieca di procedere per continue sostituzioni affinché l’uomo non abbia il tempo di fermarsi e misurare così il punto in cui si trova e, se esiste, il punto cui tende».

Ma in effetti la “festaiolità” e l’ “eventismo” son diventati, a trent’anni di distanza da questo scritto, le forme e le modalità di produzione, di circolazione e di comunicazione di ciò che è definito artistico, culturale, financo letterario e formativo (anche a livello universitario) e che mirerebbe o aspirerebbe a formare le coscienze e le conoscenze “pubbliche” assai di sovente centrando l’obiettivo. Dunque non stupiamoci per le quattro ore di coda affrontate da un pubblico prevalentemente giovane per assistere all’ “evento” di presentazione di un libro consacrato ad un celeberrimo regista e attore comico dei nostri tempi, presente in sala nello scenario di una “fiera” o “festa” internazionale del libro e dell’editoria; non stupiamoci se un (ormai attempato) musicista (?) o critico (?) musicale affiancato da una personaggio TV o filmica (?) discettino sull’uso dei vaccini togliendo la parola ad un (basito) studioso di virologia e/o virologo pediatra.

Carlo Serafini, autore del saggio  I “corsivi morali” di Giovanni Testori, ha saputo prescegliere “pezzi” significativi degli scritti di Testori apparsi sul “Corriere della Sera” e su di essi costruire un percorso di lettura critica capace di riproporre  l’interna forza, il vigore ideale ed etico dell’attacco alla cultura dominante mosso da Testori (profeticamente, si direbbe) sul finire degli anni’70: un atto d’accusa contro i “fabbricanti” di modelli dominanti spacciati sotto il nome di “modelli culturali” e sulle conseguenze nefaste apportate alle coscienze e conoscenze soprattutto del “pubblico” giovane, delle giovani generazioni in specie delle classi meno abbienti; è sufficiente recuperare poche righe per cogliere, anche, l’attualità dell’atto d’accusa di Testori, tastando “piaghe” aperte ancor oggi:

In questo senso le responsabilità che la cultura s’è assunte risultano, di giorno in giorno, più pesanti e più gravi: esaltazione del profitto e dell’oggetto come valori assoluti o, addirittura, religiosi; scatenamento meccanico e cieco del sesso, prima divinizzato, poi mercificato, quindi deturpato e distrutto; sadica cavalcata di violenze astratte e gratuite, dal fondo cupamente economico e perché senza via alcuna d’uscita; destituzione d’ogni valore, d’ogni legge e d’ogni regola, come elementi a priori illiberali e castranti. Davanti a tutto questo desidereremmo esautorare la cultura d’ogni suo peso, d’ogni sua autorità e d’ogni suo diritto. Tanto più ora che i mezzi di massa permettono di diffondere ovunque, anche là dove meno sarebbero richiesti, i suoi colorati ma funesti balletti, quasi fossero la sola e possibile spiegazione della vita; una spiegazione che non conduce a nessuno sbocco, visto che le immagini che essa riesce a sollecitare e a diffondere sono solo immagini di cecità, di demenza e di morte.

 Francesca Petrocchi

 

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