Il teatro, teatro sociale nell’esperienza viva, profonda e professionale di Paolo Manganiello

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Eccoli, Paolo e Sara; meglio, Sara e Paolo, perché lui, occhio attento, voce profonda e ferma priva di minima inflessione dialettale, cosciente del proprio sapere. Ma lei, intenso sguardo-guida, e non devo aggiungere altro.

Pochi minuti per salutarci, parlare di noi, di loro, del lavoro. Ma oggi voglio scendere nell’anima di un professionista e risalirne solo dopo avere percepito, spero, senza pretesa di indagine, i meccanismi che spingono un giovane uomo ad accostarsi e soprattutto rimanere nel favoloso mondo del teatro, sebbene colmo di complessità.  Paolo Manganiello ha alla spalle un’esperienza di attore lunga ben diciotto anni, si forma con Ferruccio Marotti nel campo della regia,  dal 2001 al 2006 lavora come doppiatore. Non è tuttavia soddisfatto: insegue autonomia, vuole approfondire la propria idea di ricerca a livello personale sulla base di esperienze, ha bisogno di costruire e donare.

Converte la sua vita in “percorso di formazione continuo e fluente” attraverso l’insegnamento che, con Giorgio Testa, ideatore della Didattica della Visione, lo vede protagonista in mezzo a giovani e docenti italiani, da Roma a Firenze, a La Spezia, a Brindisi, Venezia, Mestre, Grosseto, Pescara, Teramo con il Centro Teatro Educazione. Collabora con AGITA Teatro, associazione che si occupa di ricerca della cultura teatrale nella scuola  e nel sociale, fondata da Loredana Perissinotto nel 1972. Cosa è il teatro? Palcoscenico addobbato con luci e paillettes, sospensione dalla realtà, e/o anche e soprattutto educazione alla vita, all’arte, all’altro?

La risposta non tarda ad arrivare,  “la complessità del teatro, del teatro sociale, per come è inteso in termini accademici, non è facile da riportare in poche frasi”; il teatro sociale si divide a grandi linee in tre categorie: teatro d’arte, istituzionale;  teatro di comunità, laddove si evidenziano forme di teatro popolare afferenti a modalità di convivenza; teatro socio riabilitativo, che a Paolo non piace troppo pensare come “terapeutico”, utile per il reinserimento nella società.

La sua esperienza ormai direi ventennale, sebbene la giovane età, riguarda persone diversamente abili, fisicamente o, colpite da patologie psicologiche, di ogni età, bambini affetti da autismo, tossicodipendenti in fase riabilitativa, detenuti – in particolare ha prestato collaborazione presso il carcere di Rebibbia e la Casa circondariale di Roma Regina Coeli : non traspare la benché minima emozione. Lui è sempre concentrato sul suo obiettivo. Il teatro è innanzitutto esercizio di crescita costante e personale da trasformare in messaggio per tutti coloro che vogliono accoglierlo e capire che “fareteatro” è una scelta coraggiosa, sebbene necessaria. Non soltanto scarseggiano fondi economici, ma anche teste pensanti pronte a comprendere l’importanza  dell’educazione a questa arte/disciplina.

Grandi difficoltà ma anche grandi passioni, “quasi una contraddizione in termini” che istantaneamente si dissolve e si risolve quando Sara, e adesso “non è la mia amica”, ma l’educatrice, sottolinea che talvolta la situazione difficile “si tocca con mano”, al di là di ogni altro ostacolo, durante lo svolgimento dei corsi. Colpisce la naturalezza con cui lei si rende pronta a risolvere, motivare, intendere: parte del mestiere ma anche di consapevole maturità. Subito Paolo sottolinea che sono fortissime le emozioni che invadono maestri, volontari, genitori, apprendisti-attori durante l’attuazione delle lezioni laboratoriali.

Ogni persona, ogni gruppo ha bisogno di un percorso adatto e quindi quasi personalizzato, senza perdere di vista la possibilità di adeguare un laboratorio ai vari contesti che si presentano;  il proposito è la comunicazione attraverso  suggestioni da assorbire, rielaborare e ritrasmettere. Non c’è interesse nella filologia scenica; molti discepoli di Paolo hanno difficoltà motorie, altri di espressione verbale; l’azione emotiva si fa protagonista. Il balcone da cui si affaccia Juliet può anche essere una scala a libretto guarnita con dei fiori, perché agli spettatori è affidato il compito di ricreare nell’immaginazione la scenografia da decine di migliaia di Euro…attraverso le sensazioni!

I Laboratori teatrali sono complessi, includono esercizi, una sezione ludica, una parte riguardante l’utilizzo dello spazio circostante e successivamente l’educazione alla percezione dello spazio condiviso: il gruppo supporta chi presenta maggiori difficoltà rispetto ad altri e contiene situazioni di criticità. L’operatore teatrale è sempre attento: “è colui che in condizioni di tensione molto percepibile si ingigantisce, cresce. Mai per incutere timore ma per assimilare e capire. … Come un portiere che difende la propria squadra”.

Non si fa distinzione tra uomo e donna –  parla Sara,  c’è una squadra di essere umani che si scambiano pensieri, impressioni; c’è l’individuo e non esistono ruoli. Tutto si crea attorno a emozioni di chi sente e rimanda e di nuovo accoglie e rinvia. Piuttosto, talvolta gli allievi  discernono tra Sara e Paolo, perché struttura e tempi devono essere rispettati e il conduttore e l’educatrice agiscono responsabili e corretti, entrambi nella giusta considerazione dei propri compiti.

L’ansia cresce quando si avvicina il giorno della rappresentazione finale; l’intervallo legato alla pre-espressività viene controllato con l’integrazione: “in quei pochi minuti ci accorgiamo di essere loro, per immagazzinare quello che provano loro, dobbiamo essere loro, a questo serve il teatro, è quel momento che ci include”. Ogni ragazzo, donna, bambina, uomo, ognuno con le proprie peculiarità; l’obiettivo di Paolo si realizza quando un limite è trasformato in potenzialità.

Mi racconta di Grazia che ha gravi difficoltà a muoversi e articolare ma è una abile nuotatrice e proprio l’altro giorno, durante le prove, ha compiuto un gesto che è poi stato incluso nella prossima rappresentazione. Ha proteso un braccio in avanti, verso la platea e “nessun attore, neanche il più esperto, neanche chi ha studiato nelle migliori accademie del mondo saprà muovere un braccio tanto maestosamente e spontaneamente come ha fatto lei”. Bene Paolo!

È un lavoro duro, occorre molta pazienza, occorre saper rivedere un testo teatrale e adattarlo, ridurlo; bisogna sapersi porre con autorevolezza ma mai con severità e autorità. Perché dunque questo lavoro? Sara è molto attenta; lui : “perché è l’unica prospettiva possibile per il teatro, tutto il resto è già stato messo in scena. È l’unica prospettiva che può rendere il teatro autentico con imitazione, provare a dare un senso di vita autentica che deve vivere generazione dopo generazione. Chi non è in grado di avere un approccio etico e professionale rispetto a questo, poi, produce inutilità”.

Attualmente Paolo Manganiello lavora presso l’Associazione Culturale Astarte presieduta da Chiara Palumbo, che conduce da tredici anni la gestione dei Laboratori teatrali integrati con il collega;  presso l’Associazione di volontariato Eta Beta di Viterbo. Si occupa di storia teatrale collaborando con la cattedra di Storia del teatro e dello spettacolo tenuta dal professor Valerio Viviani  all’Università degli Studi della Tuscia, dove ha precedentemente realizzato un Laboratorio per studenti universitari. Dal 2003 non ha più interrotto la sua attività di formatore teatrale concretizzata in numerosi Laboratori presso strutture pubbliche e private, dei quali, ci tiene a ribadire, “il più longevo è quello con persone affette da disagi psichici” perché “attraverso il differente si giunge altrove ma non c’è una norma da raggiungere, non c’è una norma che stabilisce un canone. Ci sono abilità differenti”.

C’è solo la regola del voler bene, anzi, del farsi voler bene. Quale diversa emotività questa questione con questi due amici, …non credevo.

Barbara Bruni

In foto: Paolo Manganiello con un allievo.

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