“Al macero”: Bompiani ripubblica una raccolta di scritti di Zavattini

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Una raccolta di brevissimi, folgoranti racconti, novelle, conversazioni radiofoniche, lettere aperte a personaggi pubblici e a gente comune, che testimonia il talento e l’acume di uno degli intellettuali italiani più eclettici del XX secolo.
L’intellettuale è Cesare Zavattini e la raccolta è Al macero, riproposta da Bompiani a 50 anni dalla precedente edizione Einaudi. Curato e voluto da Gustavo Marchesi e Giovanni Negri, il libro ha però il titolo scelto dallo stesso Zavattini, che conservava e catalogava tutta la sua produzione, ma non aveva probabilmente alcuna intenzione di riunire e rieditare quel materiale sparso già uscito su giornali e riviste (“Io postumo non mi interesso”, sono le parole taglienti dello scrittore e giornalista di Luzzara). Al macero mette insieme una selezione di testi scritti dal 1927 al 1940. L’esordio di Zavattini come scrittore è di un anno prima, nel 1926, con un brillante resoconto apparso sulla Gazzetta di Parma delle vacanze balneari degli allievi del collegio Maria Luigia. Zavattini, allora istitutore appena ventiquattrenne, mostra già quell’umorismo lirico e quella capacità di dipingere con le parole che si ritrovano in tutta la sua sterminata produzione successiva, dagli articoli giornalistici alle sceneggiature dei capolavori del cinema come Sciuscià o Ladri di biciclette.
Se c’è un filo conduttore che lega gli scritti raccolti in Al macero è proprio questo, lo sguardo acuto e ironico con cui Zavattini indaga la realtà, anche quando i suoi personaggi sono inventati di sana pianta e le situazioni in cui si trovano completamente surreali, come quello sul viaggio nel paese di Senzastagione, dove la vita scorre silenziosa perché non ha senso parlare del tempo. Pur essendo uno dei padri del neorealismo, Zavattini racconta un mondo onirico e grottesco. I suoi scritti sono frutto di una fantasia e di una facilità di scrittura sconfinate, aprono scorci inattesi, folgorano e divertono, sebbene l’umorismo sia come una patina che nasconde un’ombra malinconica.
Non a caso protagonisti zavattiniani sono gente comune, anzi, spesso proprio gli ultimi: i vecchi, i bambini, i mendicanti, gli impiegatucci che non ce la fanno a sbarcare il lunario. Per loro “Za” ha un occhio benevolo ma privo di moralismo, una sensibilità che si traduce in proposte strampalate, ma concrete.
Nella lettera al capostazione di Roma, si avanza la richiesta di far viaggiare sempre a tendine abbassate il rapido della notte, così che i passeggeri degli altri treni, fermi poco prima di Termini, non siano costretti ad assistere allo spettacolo dei “ricchi” sui vagoni letto a cui devono dare la precedenza; in un’altra occasione, Zavattini fa appello a Vittorio De Sica perché perori la causa dei diritti delle donne di servizio.
Disincanto di adulto, stupore fanciullesco: sta qui, in questa apparente contraddizione, la grandezza di “Za”, che pensava che il mondo si possa cambiare con l’immaginazione e che il fantastico non sia meno vero del reale. (ansa.it)

CESARE ZAVATTINI, AL MACERO (A C. DI GUSTAVO MARCHESI E GIOVANNI NEGRI), BOMPIANI, 293 pp., 12 euro

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